mercoledì 7 marzo 2012

OLIO DELLA TUSCIA, STORICAMENTE CANINESE

La Tuscia è quel bellissimo pezzo di Lazio in provincia di Viterbo, arricchito dai  laghi blu e limpidi di Bolsena, Vico e Bracciano, a nord di Roma. Tracciata questa breve foto geografica, mi soffermerò più dettagliatamente sulla geoamplelografia delle cultivar allevate in questo areale così da dare una visone delle problematiche sorte nella gestione degli olivi locali e dell’estrazione dell’olio. Le cultivar presenti nella Tuscia sono  17: caninese, canino di bagno, carboncella, carboncella pianacce, frantoio, itrana, leccino, marina, moraiolo, nostrale fiano romano, olivone, palmarola, pendolino, raia, rosciola, salviana, sierola. Questo per rigore di cronaca, ma quando passiamo all’atto pratico, scopriamo che recentemente si aperta una voragine tra l’attitudine del territorio e le tendenze  mercantili. La regina delle cultivar della Tuscia è la CANINESE.  Regina per dominio del territorio: nei comuni di Vetralla, Blera Farnese e Canino i più vocati, occupa il 95% dei terreni olivetati. Per tradizione culinaria: i piatti locali sono tutti conditi con questo olio e se si sono tramandati e affermati nel mondo lo si deve anche al profumo e al sapore che ha conferito a piatti come “Spaghetti Aglio e Olio”, uno per tutti. Se poi pensiamo agli aspetti botanici, la caninese cresce come altre cultivar non fanno,  qui si arricchisce degli acidi grassi più preziosi e con percentuali maggiori. Insomma questa è casa sua da sempre. Dall’altra parte della voragine, quella mercantile, troviamo cultivar come Leccino, Frantoio, Pendolino che pur autoctone, si sono espanse solo grazie ad impianti volutamente mirati e consigliati perché varietà più precoci, capaci di entrare prima in produzione, cioè di allegare ed invaiare prima. Queste due tendenze ovviamente sostenute da due mentalità diverse si scontrano a tal puto da creare immobilismo, di cui approfitta chi della qualità se ne infischia o chi mira a totalizzare il controllo del mercato. A conferma dell’esistenza dell’enorme frattura, ci sono due DOP: CANINESE e  TUSCIA . La prima dove il disciplinare prevede solo la lavorazione della cultivar Caninese, la seconda dove il disciplinare è talmente elastico che sembra l’arca di Noe, dove si imbarcano Leccino, Frantoio, Pendolino ecc. I maligni dicono che forse è per questo che si vedono transitare camion targati “peranzana” ma a queste chiacchiere non mi associo e resto sul merito dell’ impiego un ampio spettro di cultivar seppur locali. Il mercato globale in cui siamo immersi provoca istintivi rigetti di prodotti generici ed una DOP  proprio perché “denominazione di origine protetta” ha valore se tipica per origine ma soprattutto se unica per le sensazioni che da in tavola. Il leccino è una grande cultivar ma le sue espressioni aromatiche di lattuga e prezzemolo non sono quelle del mallo di noce vivace e squillante della caninese e poi è una cultivar “con la valigia” la trovi dovunque, proprio perché poco esigente, si adatta a qualsiasi terreno. Promuovere un Consorzio di Tutela dell’Olio Caninese avrebbe il vantaggio di offrire al mercato un prodotto tipico ed unico difficilmente preda degli spiriti commerciali, a vantaggio della “Tutela del territorio TUSCIA”. Quei marchi locali a logica industriale sono necessari, ma potranno trarre ancor più vantaggio se fondati su una sola DOP , credibile ed esigibile, dove tutto ruota sulla forza di un territorio costruito  da migliaia di coltivatori e non come nel medioevo sul Castello più alto. Sappiamo tutti com’è andata a finire dopo.
Gino Celletti                   

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